Il volto largo e scavato si impone e per un attimo ammutolisce, la lunga zanna avverte e preannuncia l’imponente stazza. Alto quattro metri e lungo sette, i sostegni forgiati lungo le ossa mantengono lo scheletro composto. Trascorsi un milione e trecento mila anni, il Mammut della città di L’Aquila, protetto dalle spesse mura del Castello Cinquecentesco, è ancora qui: maestoso e spavaldo, tra i più completi esemplari del Pleistocene.

A dare un’immagine di come fosse in carne ci ha pensato il celebre Benoit Clarys, famoso per illustrare trascorsi lontani: mammifero in quell’Abruzzo lacustre d’un tempo capace di offrire un clima africano. E se l’arte aiuta a fare un tuffo nel passato e il cinema proietta un viaggio animato, il museo custodisce, espone e restaura. Correva il 1954 quando il Mammuthus meridionalis fu rinvenuto casualmente durante uno scavo in una cava d’argilla nel Comune di Scoppito, in un piccolo paese a pochi chilometri dalla città di L’Aquila.
Perforando un misto di argilla e sabbia in cerca dell’acqua il terreno restituì quello che oggi si potrebbe definire un odierno elefante dalle zanne ricurve. Una scoperta unica avvenuta, a meno di un metro, tra mistero, incredulità e sospetto. Nonostante lo stato precario delle ossa, a spiegare la lunga conservazione, dell’esemplare ritrovato quasi completo, è il basso contenuto di ossigeno presente nell’argilla.

Morto a 55 anni sulla sponda di uno specchio d’acqua, 11.550 chilogrammi di peso, maschio, della specie con poco pelo, amante della frutta e delle foglie, sono le 149 ossa a rivelare ai paleontologi i segreti del Mammut di L’Aquila. L'identikit parte dai denti molari, indicatori degli anni, dal bacino e dalle vertebre, che ne svelano il sesso ma anche l’altezza e la massa corporea.

La curiosità più evidente del Mammut è anche la sua caratteristica: la presenza di una sola zanna. Un marchio distintivo, che in vita gli avrebbe creato persino una sorta di scoliosi. Dal peso di 100 chilogrammi l’unica difesa - originale - del Mammut è conservata ai suoi piedi (Attaccata allo scheletro c’è una copia identica più leggera), mentre l’altra (non rinvenuta durante gli scavi) si sarebbe malamente spezzata creando una frattura soggetta a infezione. Una “ferita” scaturita da un combattimento, è l’ipotesi più accreditata.

A lungo lo scheletro è stato oggetto di studi e di meticolosi interventi. Sono affascinanti le fasi di restauro avvenute in diverse epoche e per motivi differenti. Negli anni che vanno dalla scoperta al 1960 la decisione di agire sullo scheletro è stata presa per bloccare il deterioramento delle ossa: giudicate “troppo fragili”. Scelta che portò a decisioni drastiche. Per alleggerire lo scheletro, durante il trasporto del Mammut presso l'istituto di Geologia dell'Università di Roma, si optò per recidere la zanna (Ripristinata a fine lavori).

Le ossa, accuratamente riposte in otto casse, subirono un primo consolidamento accompagnato, durante la fase espositiva, dall’armatura di tubi di ferro a sostegno. Il secondo restauro avvenne alla fine degli anni Ottanta (1987-1991) deciso per salvaguardare lo sgretolamento all’interno delle ossa.
Il cranio e il bacino furono risistemati sul posto mentre il resto dello scheletro trovò accoglienza nei laboratori del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze. In questa fase si decise di ricostruire parte della mandibola e di sostituire definitivamente la pesante zanna con una riproduzione più leggera.

Il terzo e ultimo intervento è avvenuto dopo il terremoto dell’Aquila del 2009, per via delle lesioni che hanno interessato parte dello scheletro del Mammut. Finanziato dalla Guardia di Finanza, i lavori di restauro hanno consentito, tra il 2013 e il 2015, di rafforzare ulteriormente le ossa originali e di rimodellare con maggiore efficacia le integrazioni avvenute nei precedenti restauri.
Il consolidamento superficiale e strutturale è stato un passo decisivo per restituire alla città e al mondo lo straordinario Mammut aquilano. E nonostante il castello sia ancora cantiere, il bestione, rimasto al buio troppo al lungo nel bastione est del Forte Spagnolo, è tornato maestoso e spavaldo grazie allo sforzo collettivo e alla tenacia di chi se ne prende cura.

Presentato come una star, il Mammut è un guerriero senza tempo uno dei simboli della città di L’Aquila. La sua presenza è un collegamento remoto difficile da immaginare, una finestra temporale ciclopica rispetto alla parentesi della vita umana.
Si ringrazia il MuNDA - Museo Nazionale d’Abruzzo
Direttore delegato Dott.ssa Federica Zalabra