Monteneve, il villaggio abbandonato dai minatori e divenuto museo
Il sito minerario di San Martino si trova a oltre 2.300 metri di quota, in cima alla Val Passiria. Ora il paese è abbandonato, ma in passato - racconta la guida Franz Kofler - era abitato da migliaia di minatori che scavavano nei 150 km di gallerie
Una montagna d'argento, che nel 1200 comprava spade per la sicurezza di Bolzano e nel Cinquecento fondeva in grandi talleri preziosi quanto fiorini d'oro. Una miniera che per secoli ha arricchito vescovi, banchieri e arciduchi. E dato un lavoro e una casa a migliaia di minatori, fabbri e alle loro famiglie. Oggi Monteneve è un rifugio per escursionisti e un museo per appassionati di archeologia industriale. Ma per secoli è stato un paese vero e proprio. Tra scavi, depositi di minerali e fucine, aveva anche una chiesa per le funzioni religiose e una scuola per i bambini, una sala comune per il tempo libero, un ospedale e un grande dormitorio, a sostituire le piccole abitazioni che i minatori si costruivano all'imbocco delle gallerie, per usare i 10 gradi costanti del sottosuolo come riscaldamento contro il gelo dell'inverno a meno 25.
Un paese costruito su chilometri di gallerie scavate a mano in una roccia durissima, fatta di quarzo e granito, dove i minatori avanzavano a picozza di 2 centimetri al giorno, consumando una punta metallica all'ora e fornendo quotidianamente ai fabbri centinaia di attrezzi da riforgiare. Turni da 12 ore giornaliere da trascorrere sottoterra, nel buio quasi totale, alla luce delle candele e in seguito del carburo.
Un lavoro che veniva pagato bene, anche il triplo di un manovale impiegato a valle. Ma in cui si rischiava la vita a causa delle frane del terreno, dell'acqua che invadeva i cunicoli e, in superficie, a causa degli incidenti nel trasporto o delle valanghe. Nel 1693 una slavina seppellì uno degli alloggi nel cuore della notte e 27 minatori morirono nel sonno, prima che i compagni riuscissero a tirarli fuori a mani nude.
Nella miniera più alta d'Europa si soffrivano il freddo e l'isolamento, difficili da sopportare soprattutto per chi lasciava casa e parenti lontano, come i tanti minatori provenienti dalle regioni meridionali che arrivarono qui dopo l'annessione all'Italia dell'Alto Adige nel 1919.
Altri invece vi costruirono famiglia. A San Martino lavoravano anche le donne, impiegate nella selezione e separazione dei diversi minerali: e se nubili avevano una casa riservata a cui gli uomini non potevano nemmeno avvicinarsi. Una società, dunque, che aveva precise regole di comportamento. E che si spense solo nel 1967, insieme alle ultime fiamme dell'incendio che distrusse il grande dormitorio, a cui seguì lo smantellamento dei 27 km di rotaie dell'impianto a cielo aperto di epoca asburgica.
Franz Kofler, che oggi da metà giugno a metà ottobre conduce i visitatori lungo i sentieri di 2 o 4 ore da Moso in Passiria e dalla val Ridanna, e poi nelle escursioni al sito minerario e al museo appena riallestito, quella società se la ricorda bene: il padre ci lavorava come fabbro e la sua famiglia ci ha vissuto a lungo.
Oggi la montagna custodisce ancora grandi riserve d'argento, zinco e piombo. La proposta d'acquisto di una società canadese per continuarne lo sfruttamento dalla superficie è stata rispedita al mittente. E i minerali restano intatti a custodire la memoria di un mondo ormai scomparso.
Un paese costruito su chilometri di gallerie scavate a mano in una roccia durissima, fatta di quarzo e granito, dove i minatori avanzavano a picozza di 2 centimetri al giorno, consumando una punta metallica all'ora e fornendo quotidianamente ai fabbri centinaia di attrezzi da riforgiare. Turni da 12 ore giornaliere da trascorrere sottoterra, nel buio quasi totale, alla luce delle candele e in seguito del carburo.
Un lavoro che veniva pagato bene, anche il triplo di un manovale impiegato a valle. Ma in cui si rischiava la vita a causa delle frane del terreno, dell'acqua che invadeva i cunicoli e, in superficie, a causa degli incidenti nel trasporto o delle valanghe. Nel 1693 una slavina seppellì uno degli alloggi nel cuore della notte e 27 minatori morirono nel sonno, prima che i compagni riuscissero a tirarli fuori a mani nude.
Nella miniera più alta d'Europa si soffrivano il freddo e l'isolamento, difficili da sopportare soprattutto per chi lasciava casa e parenti lontano, come i tanti minatori provenienti dalle regioni meridionali che arrivarono qui dopo l'annessione all'Italia dell'Alto Adige nel 1919.
Altri invece vi costruirono famiglia. A San Martino lavoravano anche le donne, impiegate nella selezione e separazione dei diversi minerali: e se nubili avevano una casa riservata a cui gli uomini non potevano nemmeno avvicinarsi. Una società, dunque, che aveva precise regole di comportamento. E che si spense solo nel 1967, insieme alle ultime fiamme dell'incendio che distrusse il grande dormitorio, a cui seguì lo smantellamento dei 27 km di rotaie dell'impianto a cielo aperto di epoca asburgica.
Franz Kofler, che oggi da metà giugno a metà ottobre conduce i visitatori lungo i sentieri di 2 o 4 ore da Moso in Passiria e dalla val Ridanna, e poi nelle escursioni al sito minerario e al museo appena riallestito, quella società se la ricorda bene: il padre ci lavorava come fabbro e la sua famiglia ci ha vissuto a lungo.
Oggi la montagna custodisce ancora grandi riserve d'argento, zinco e piombo. La proposta d'acquisto di una società canadese per continuarne lo sfruttamento dalla superficie è stata rispedita al mittente. E i minerali restano intatti a custodire la memoria di un mondo ormai scomparso.