«Una settimana da incubo, ma voglio tornare a bere quell’acqua»

Il racconto di un salvataggio miracoloso, tra le allucinazioni da sete, la paura di non farcela, e una passione per la montagna che non tramonta

A un mese e mezzo dal suo salvataggio, parla Michele Benedet, l’alpinista 33enne triestino vittima di una caduta in montagna, su una pista forestale della val Venzonassa, in Friuli, e recuperato dopo essere rimasto solo all'addiaccio per 7 lunghi giorni. Un'avventura estrema che ha avuto anche conseguenze importanti. Il suo racconto, alla trasmissione televisiva “Buongiorno regione”.

«Sono caduto su un sentiero sciocchissimo, per niente pericoloso, per niente esposto, ma che però era coperto da uno strato di neve: una decina di centimetri, quello che bastava per scivolare. Dopo la caduta, non riuscivo a respirare, non appoggiavo la gamba (pensavo fosse slogata, invece era proprio rotta) e poi, il sangue che scendeva, varie ferite, e un senso di svenimento… Prima di perdere i sensi, ho deciso di scendere giù a valle fino al sentiero per non rischiare di svenire lì in mezzo alla neve, dove nessuno mi avrebbe più trovato.» 

«Ad un certo punto, lo zaino è diventato troppo pesante da portare avanti e ho dovuto abbandonarlo: ho preso il telo termico, la cartina, la torcia, e sono sceso di quel mezzo chilometro, e di quei 2-300 metri di quota che mi separavano dal sentiero, e lì sono crollato.»

«Pensavo di avercela fatta: invece, da lì è cominciata una settimana di gelo e di attesa. Non passava nessuno; io cercavo di ripetermi che qualcuno prima o poi sarebbe venuto a salvarmi, ma ci sono stati dei momenti di disperazione. Ogni volta che arrivava il buio era lo scoraggiamento; e poi, è arrivata la sete. Dopo tre giorni, deliravo: ero convinto di avere con me la mia ragazza e gli amici, ho addirittura immaginato di dover fare un trasloco, mi è successo di tutto.»

«Il fiume era vicinissimo, quindi, al quarto giorno, preso completamente dalla follia della sete, ho cominciato a non pensare ad altro che a raggiungerlo. Ci ho messo mezza giornata sempre strisciando, fino alla sponda. Ma l’acqua non riuscivo a raggiungerla, il terreno era sconnesso; per fortuna, c’era anche una lastra di ghiaccio, pian piano sono riuscito a romperla e poi ho cominciato a mangiare quel ghiaccio, e alla fine sono riuscito a godermi l’acqua che scendeva.»

«Alla fine, è arrivato l’elicottero. L’ho sentito, mi son tirato su, ho preso un pezzo di cartina, l’ho fissata con uno stecco, e ho cominciato a sventolarla. Mi hanno visto e sono scesi. Non so cosa ho detto al primo soccorritore, certo è che provavo a convincerlo fino all'ultimo a portarmi sotto la cascatella del fiume, perché desideravo bere quell’acqua.»

«Ho fatto un mese in ospedale. All’inizio, sembrava che il congelamento avesse fatto danni limitati, invece ho perso completamente un piede, quello destro. Quando me lo hanno detto, ho passato una settimana pesantissima; ma dopo - devo dire - tutto è andato in discesa. Adesso sto apprezzando il sole, la compagnia delle figlie che non ho visto per tutto questo tempo. E la prima cosa che farò, quando sarà possibile, sarà tornare su quel sentiero dove sono scivolato, sotto quella cascata, a quel torrente, a bere quell'acqua con gli amici che ho visto durante le allucinazioni… »