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ITINERARI

Intervista a Benedetto Selleri

Expo 2015, il paesaggio che verrà

E’ ormai iniziato il conto alla rovescia per la conclusione dell’Expo 2015. La storia dei luoghi che hanno ospitato le grandi mostre internazionali non ci ha presentato molti esempi "edificanti", tanto che si potrebbe pensare al “dopo” delle esposizioni universali come a laboratori di Terzo paesaggio: spazi vuoti, riusi limitati, strutture inutilizzate. Il Comune di Milano vuole però che il 60% dell’area espositiva venga dedicato ad aree verdi. In che direzione va questa richiesta? E con quali criteri sarà rispettata?

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di Laura Mandolesi Ferrini Roma
“Questa sera (...) dobbiamo raggiungere Brescia. Io arrivo sempre tardi perché non voglio lasciare il lavoro a metà. Se vuoi fare una cosa bella devi dare il cuore, sempre”. Alberto, (cantiere di paesaggio di Expo, Milano, 2014 ). 
Alberto è uno degli operai che hanno lavorato al cantiere di paesaggio più grande d’Europa: oltre 300.000 metri quadri dedicati a boschi, canali, viali e giardini dell’Expo di Milano. E Benedetto Selleri, (paesaggista AIAPP, dottore in scienze forestali, socio fondatore di PAN associati srl), autore assieme all’architetto Franco Zagari del progetto, lo cita per dare un’idea dello spirito che ha accompagnato la sua realizzazione: senso di sfida, corsa contro il tempo (le prime piantumazioni, a fine primavera 2014), grandi aspettative sull’impatto finale. Perché se il futuro del sito espositivo è ancora incerto, l’anello verde che lo circonda è stato creato per rimanere. Ontani, pioppi, salici, querce, e ancora carpini, tigli, rose e ciliegi selvatici, noccioli, per un totale di 12.000 alberi, 85.300 arbusti, 151.700 erbacee, e 107.600 piante acquatiche. Un bosco apparentemente spontaneo ma  progettato nei dettagli per l’Expo, con la funzione di filtro verde, di valore aggiunto per i visitatori, e in sintonia con il tema della nutrizione: le specie arboree scelte sono quelle del paesaggio agrario della pianura Padana. Ma il bosco-foresta-polmone-verde è stato concepito anche per il dopo Expo, con lo scopo di  mitigare una zona fortemente degradata e valorizzare il territorio attraverso la ricerca quasi filologica di quella che fu un tempo la foresta planiziale della regione. Quello che ci sarà poi, dentro e fuori questo anello magico, possiamo per ora solo sperarlo o paventarlo: i vuoti lasciati dai padiglioni smontati saranno riempiti dalla brutta edilizia tipica del paesaggio urbano italiano, usando il “verde” per moltiplicare il valore degli immobili, oppure qualcuno coglierà le implicazioni dello sforzo innovativo del progetto, e cercherà di ampliarlo.

A proposito di questi delicati equilibri, abbiamo intervistato Selleri, autore con Zagari del libro “Moving Forest Expo Milano 2015 Landscape” che illustra le varie fasi del progetto, dalla nascita alle questioni ancora aperte sul suo futuro.  
Entrambi gli autori saranno, lunedì 12 ottobre, alla Casa dell’Architettura di Roma, per un seminario sul “dopo” Expo.  


Dottor Selleri, siamo già arrivati a parlare del dopo Expo, ma facciamo un passo indietro, prima ancora della progettazione: il primo sopralluogo nell’area adibita a ospitare l’esposizione, Rho Fiera. Un luogo-non luogo, un terzo paesaggio, che lei non ha esitato a definire un  paesaggio di “scarto”. Ci può raccontare cosa di quest’area l’ha colpita?
Territorio di scarto nel senso di un territorio che all’apparenza è di poco valore, la cui forma ed aspetto sono determinati da “altro”: le infrastrutture, il grande ufficio delle poste, il carcere, l’ urbanizzato intorno che preme fino ai suoi confini. Tutto questo “altro”, è stato realizzato nella assoluta indifferenza nei confronti del territorio intorno su cui poi è sorta l’Expo. Per meglio dire ne ha determinato le caratteristiche in modo indiretto e casuale.
Lo spazio aperto era davvero immenso; era difficile immaginarne la trasformazione. Il perimetro  incombente ne determinava la sua caratteristica di spazio intercluso. La barriera di separazione è costituita da un unicum opprimente di costruzioni con destinazioni eterogenee ma sostanzialmente indifferenziato dal punto di vista del paesaggio. Le grandi infrastrutture presenti tracciano ancora più in profondità questa separazione che non è più solo fisica ma diviene anche acustica, rinforzandone ancora di più l’effetto negativo.
Percorrere la futura isola espositiva significava anche incontrare i molti fenomeni di degrado particolarmente evidenti quali recinzioni e barriere, accumuli di rifiuti, strade in condizioni precarie, campi nomadi ed insieme anche qualche presenza arborea pioniera ancorché molto limitata, qualche albero da frutta memoria delle attività agricole un tempo fiorenti.
In quel periodo mi sono trovato a riflettere sulla sfida di portare in questo territorio 20 milioni di persone, come ad una sfida apparentemente impossibile.
Il nostro lavoro ci insegna però che un territorio in quanto tale non è mai di scarso valore. Abbiamo numerosi esempi di aree di “scarto” riqualificate, che giungono ad una nuova vita sotto il profilo paesaggistico, naturalistico ed in generale ambientale, sotto il profilo sociale. Queste aree, se frutto di una attenta e corretta progettazione, diventano anche motivo di valorizzazione e riqualificazione dei territori limitrofi. Non si tratta solamente di riqualificazione o valorizzazione di territori bensì di vero e proprio incremento della ricchezza umana, capacità di relazione, senso di comunità, sensibilità nei confronti della tutela e conservazione dell’ambiente e del mondo. Questo, almeno in parte, direi che è avvenuto anche nel caso di Expo.
Non esiste quindi un territorio di scarso valore ma esistono buoni o cattivi progetti, buone o cattive idee.

La prima idea era quella di un orto botanico planetario, con grandi serre e decine di campi coltivati. Perché è stata scartata?
Il passaggio dal masterplan al progetto preliminare ha comportato una semplificazione. L’Ufficio di Piano ha voluto cercare un disegno complessivo più collaudato e forse funzionale ma insieme meno forte nel disegno complessivo delle opere di paesaggio.
L’idea affascinante di orto globale, dei campi coltivati che poi, terminato l’evento, sarebbero stati nuovamente utilizzati per l’agricoltura nel contesto di un grande parco agricolo,  è stata sostituita con un progetto più tradizionale e più sicuro in termini realizzativi. Teniamo presente che il mantenimento delle previsioni del masterplan avrebbe richiesto la presenza anticipata dei paesi per le attività di coltivazione, cosa che avrebbe dovuto conciliarsi con i tempi di un cantiere di realizzazione delle opere molto complesso.
 
L’anello verde che delimita l’Expo, come lei ha scritto, “afferma un principio di riscrittura urbanistica”. La vostra idea è quella di utilizzare il progetto di paesaggio come uno dei motori della trasformazione urbana. Una proposta ottimista o un’utopia?
Credo che il progetto di paesaggio sia molto più efficace, molto più potente come motore di trasformazione territoriale, ambientale ed umana, di quanto riteniamo anche noi paesaggisti. Bisogna rendersi conto di dove siamo, conoscere a fondo il territorio ed i suoi processi, conoscere i problemi con un approccio di grande apertura.
E’ indispensabile la multidisciplinarietà, unico metodo possibile per capire, studiare a fondo tutte le potenzialità del progetto di paesaggio in termini di servizi ecosistemici.
Non si può più parlare solamente di parco urbano, green belt, rete ecologica ma bisogna affrontare il tema del progetto di paesaggio alla scala della green infrastructure cioè degli spazi aperti visti in senso olistico come una vera e propria infrastruttura verde, capace di fornire servizi specifici che vengono misurati e monitorati sia in termini ambientali, che paesaggistici, sociali e culturali.
E’ certamente un lavoro complesso ma insieme affascinante ed efficace anche nei processi di trasformazione urbana. Per “proteggere” l’Expo dall’intorno si potevano fare anche scelte differenti. La foresta,  rievocazione della foresta naturale di pianura, ha permesso la realizzazione di un paesaggio di carattere, di uno sfondo decoroso ma insieme totalmente aperto al territorio limitrofo, capace di indicare un percorso virtuoso di riqualificazione e trasformazione urbana.
La nostra proposta non è utopia ma è un’occasione, come è testimoniato da tanti progetti che sono stati capaci di raggiungere questi obiettivi. 

Avete già allo studio altre aree da riqualificare-riscrivere in questo modo? E cosa si può fare affinché quest’isola verde diventi un arcipelago?
Con i miei colleghi di PAN non siamo fermi proprio perché il nostro lavoro ci appassiona e sentiamo su di noi una grande responsabilità nella consapevolezza che è necessario cambiare prospettiva e che l’esigenza di cambiamento, di benessere, di bellezza è molto forte soprattutto nelle aree urbane. Tra breve inizieremo con altri colleghi il percorso della progettazione di un grande Parco della Pace a Vicenza. Una sfida davvero entusiasmante. Lavoreremo con molti colleghi italiani ed europei: naturalisti, agronomi, forestali, esperti di progettazione partecipata, geologi, ingegneri idraulici. Stiamo portando avanti importanti progetti internazionali nell’est asiatico, stiamo terminando interessanti realizzazioni di complessi museali che hanno lo scopo di sensibilizzare su tematiche ambientali.
Perché l’isola diventi un arcipelago è necessario l’approccio della green infrastructure che citavo precedentemente. Ci vuole un lavoro paziente e coordinato fatto di progetti e di processi corretti, un lavoro a diverse scale alla ricerca di connessioni e sinergie. Bisogna volerlo. Vorrei dire che dal basso l’esigenza c’è ed è sentita in modo molto forte. C’è la consapevolezza di essere arrivati ad un punto di non ritorno, è forte l’esigenza di cambiamento. E’ necessaria la medesima consapevolezza e determinazione anche a livello  politico.
 
Progettando gli altri spazi all’interno dell’area espositiva, avete cercato di sviluppare un racconto nel racconto, “mostrando come l’uomo modifica la natura e come la natura reagisce alle azioni dell’uomo”. Ma come reagisce l’uomo alle modifiche che egli stesso apporta alla natura?
Il Progetto del Paesaggio Di Expo si Inserisce nel più generale tema di expo "NUTRIRE IL PIANETA, ENERGIA PER LA VITA".
Come ricordato è un racconto nel racconto, il racconto della relazione tra l'uomo e la natura. Quali usi, quali impatti causa l'attività dell'uomo alla natura e come la natura reagisce alle sollecitazioni dell'uomo. Per questo vi sono paesaggi differenti: alcuni più naturali, altri più agricoli od urbani.
Il progetto di Expo, come spesso avviene nei progetti di paesaggio, fornisce quindi un’idea di natura. Sono rappresentati differenti paesaggi alcuni che rievocano la natura come la Foresta con il canale, altri che hanno a che fare con la nutrizione come gli Hortus, costituiti da piante da frutta e veri e propri orti, altri più urbani come le grandi piazze. Spesso queste caratteristiche (natura, agricoltura, spazi urbani) vengono volutamente mischiate, confuse o fuse insieme. Nei filari ad esempio, elementi tipicamente urbani, che hanno nel piano dominato specie arbustive da frutto. Le vasche di fitodepurazione fortemente legate all’uomo ed alla città sono concepite come giardini naturali. La collina mediterranea presenta paesaggi che rievocano la naturalità e paesaggi agricoli. Il giardino delle farfalle viene realizzato su un giardino pensile e posto in una grande piazza. Tutto ciò proprio allo scopo di indicare un’idea di natura disponibile, di un’idea di paesaggio diversa per la città di domani con elementi agricoli, urbani e naturali insieme.
Come reagisce l’uomo alle modifiche che egli stesso apporta alla natura ?
Provo a rispondere in modo indiretto. Molte ricerche dimostrano come la natura o l’ambiente urbano influiscano sulla salute psichica delle persone. Trovo ad esempio molto interessante, in questo periodo di crisi e di costruzione di muri in Europa, lo studio dell’Università di Standford sull'effetto che ha il verde sui pensieri negativi e rinunciatari (che vengono messi in evidenza studiando l’attività di una parte di cervello che si chiama “coreteccia prefrontale subgenuale”). Chi percorre aree urbane presenta un’attività  molto forte di questa parte del cervello che è causa appunto dei pensieri negativi e rinunciatari a differenza di chi vive a contatto della natura. L'immersione risulta pertanto terapeutica.
 A Toronto i ricercatori dell’Università di Chicago dopo una ricerca piuttosto estesa concludono che “avere più di 10 alberi in un’area della città in media migliora la percezione di salute come se il reddito annuale fosse incrementato di 10.000 dollari, come se si abitasse in un quartiere più pregiato o come se ci si sentisse più giovani di 7 anni”.
Ci ricordava a giugno Pierre Rabhi contadino, filosofo e scrittore francese d'origine algerina che le nostre città sono senza natura, sono come mondi paralleli, difficili da comprendere e da vivere.
La modificazione del nostro paesaggio, la riduzione drastica di spazi naturali causa un impatto diretto e negativo sulle persone. Credo, come ricordavo prima, che sia ormai evidente una reazione ed una consapevolezza diffusa che parte dal basso. E’ una forte richiesta  di cambiamento, di città diverse, più comprensibili, più accoglienti, con più attenzione al paesaggio. A questa richiesta va data, urgentemente, una risposta.
 
Ora che l’Expo sta per finire, che conclusioni può trarre da questa esperienza? E quale sarà il futuro del bosco?
Certo adesso rimane il tema del dopo nel senso del futuro delle aree. Non è però sufficiente parlare di funzioni dell’area espositiva. Il tema va inquadrato in una riflessione sul futuro del territorio, visto in una logica di green infrastructure. L'area Expo è strategica per la rete ecologica e paesaggistica di questo territorio  costituita in particolare dal sistema dei parchi. Questa deve essere la scala di riflessione.
La foresta va protetta, conservata, mantenuta ampliata e connessa sempre di più con il territorio intorno.