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USA2020

Usa 2020

Trump o Biden? La scelta dell'America tra le speranze (e le paure) del mondo

 Da Mosca, Londra e Gerusalemme l'analisi dei corrispondenti della Rai

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Nel pieno della pandemia il mondo affronta l'evento politico che più di ogni altro è destinato a modificare gli assetti globali dei prossimi anni. Dal 4 novembre (o più avanti, si vedrà) avremo a che fare con una America di Trump seconda stagione o invece con un'America di Biden tutta ancora da scrivere? Che cosa cambia per le diverse aree del mondo se il popolo statunitense sceglierà l'uno o l'altro? Le previsioni e l'impatto atteso sono molto diversi nei vari scacchieri internazionali. Vediamo grazie ai corrispondenti della Rai che cosa si attendono (o che cosa temono) in tre città strategiche: Mosca, Londra e Gerusalemme.


Il Cremlino e la corsa alla Casa Bianca: “Fra Biden e Trump sceglier non saprei”

da Mosca Marc Innaro

La storia si ripete. Ogni 4 anni, alla vigilia delle elezioni presidenziali USA, torna puntuale l’interrogativo: su quale dei due candidati punta la Russia? Cosa si aspetta dal prossimo inquilino dalla Casa Bianca?

Immancabili, tornano in servizio i “cremlinologi”. Eppure, a differenza del passato, forse stavolta non servono analisi elaborate e dietrologie di esperti navigati. Nell’infuocata campagna elettorale americana, balza infatti ad occhio nudo la sorprendente e pressoché totale assenza del tema Russia e “Russiagate”.

Forse anche a causa della pandemia in corso, rispetto al 2016 l’argomento sembra oggi essersi molto sgonfiato: sia in campo democratico (malgrado Biden sia un esponente della vecchia guardia), sia da parte di Donald Trump (che ha riesumato la vicenda Russiagate solo per ribadire che quella fu, a suo tempo, una manovra democratica ordita contro lui).

Nella scorsa primavera, alcuni falchi democratici (come Victoria Nuland e Susan Rice) avevano tentato di riesumare il presunto ruolo del Cremlino nel condizionare l’elettorato americano per affossare Hillary Clinton. Ma dopo la scelta di Joe Biden di candidare Kamala Harris come suo futuro vice-Presidente, il “Russiagate” è immediatamente tornato nel dimenticatoio, a conferma che oggi non ha più alcun fondamento di logica politica. Il motivo? Presto detto: il Cremlino giudica sia Trump che Biden candidati molto difficili da gestire per i propri interessi.

A partire dal 2016, il Russiagate si era basato sul teorema (mai dimostrato) che Donald Trump fosse manipolato (se non addirittura ricattato) dai russi, che fosse una marionetta di Vladimir Putin. Dopo 4 anni, la realtà si è dimostrata ben diversa. Se è vero che gli USA si sono disimpegnati dalle crisi in Siria e Ucraina, dall’altra parte è stata semplicemente impressionante la serie di atti apertamente ostili alla Russia: crescente inasprimento delle sanzioni contro Mosca; attacco frontale al progetto del gasdotto siberiano North Stream; smantellamento del Trattato INF (Intermediate Range Nuclear Forces) del 1987; scontro diretto con Cuba, Venezuela, Iran e Cina (tutti legati alla Russia da importanti accordi politici, economici e militari).

Senza dimenticare che, se con Trump alla Casa Bianca sono state cooptate persone nuove, semi-sconosciute, provenienti in gran parte dal settore privato, la diplomazia del Cremlino si basa da sempre sui rapporti personali e sulla continuità. Basti pensare che negli ultimi 30 anni in Russia si sono avvicendati soltanto 4 Ministri degli Esteri, fra cui l’attuale Sergey Lavrov. Pertanto, per Mosca, la presidenza Trump è stata un gigantesco salto nel vuoto, costellato da enormi difficoltà operative.

Visto da Mosca, anche il “fronte Biden” non sembra al momento offrire motivi di grande ottimismo. A cominciare dalla retorica da guerra fredda (in puro stile “amministrazione Obama”) cui il candidato democratico americano fa talvolta ricorso, e che ultimamente ha suscitato l’irritazione di Vladimir Putin (che ha parlato addirittura di “russofobia”).

Ma va anche detto che, proprio in virtù della tanto perseguita continuità di rapporti, alla fin fine al Cremlino oggi probabilmente dispiacerebbe un po’ meno vedere Joe Biden presidente. Meglio, evidentemente, avere a che fare con un “devil you know” (un diavolo che conosci), piuttosto che con un “cavallo pazzo”, imprevedibile e imponderabile, come Donald Trump. Da noi, in Italia, si direbbe: “Mai cambiare la via vecchia per la nuova”…

Tra Londra e Washington sarà sempre "special relationship"

da Londra Marco Varvello

A domanda, l’altro giorno Boris Johnson ha risposto con la formula tradizionale di ogni Premier britannico: “Chiunque sia il Presidente americano, senza dubbio continuerà la relazione speciale tra i nostri due Paesi”.
Rapporto unico, forgiato dalle comuni radici, dalla storia coloniale, dalla guerra di indipendenza americana, dai tanti miracoli economici sincronizzati, dalla lotta insieme contro il nazismo, dalla alleanza transatlantica di cui Washington e Londra sono i pilastri. Ma è altrettanto vero che non è indifferente chi sia l’inquilino della Casa Bianca.

Se Donald Trump vincerà un secondo mandato il primo a congratularsi tra i leader stranieri sarà certamente Boris Johnson, che con Trump ha condiviso in questi anni un buon rapporto personale. Per non parlare del sostegno americano in quella battaglia a cui Johnson deve l’arrivo a Downing street, cioè la Brexit. Spesso soprannominato il “Trump britannico”, il Premier inglese ha goduto di questa alchimia di carattere.

Entrambi popolari e populisti, politicamente scorretti e guasconi. Trump aveva più volte criticato pubblicamente i tentennamenti di Theresa May e lodato invece il colpo di piccone che Johnson ha dato all’Unione europea con il suo “Get Brexit done”, facciamo la Brexit finalmente. Lo slogan con cui ha trionfato nelle elezioni del dicembre scorso.

Ma Trump è anche il Presidente che vuole “America first” sempre e su ogni tavolo negoziale. Per questo non si prospettano certo come una passeggiata le future trattative per un trattato di libero scambio transatlantico, che nei disegni britannici dovrebbe sostituire in gran parte l’interscambio con il mercato unico europeo.

Pure il disimpegno progressivo dell’amministrazione Trump dagli organismi internazionali, a cominciare dalla NATO per arrivare all’ONU, non è stato condiviso da Londra. Anche perchè esporrebbe il Regno Unito alla necessità di un maggiore ruolo di supplenza sulla scena internazionale. Per non parlare di dossier come Iran o cambiamenti climatici, dove il governo Johnson resta saldamente legato alle posizioni europee.

Ma anche con Joe Biden Presidente degli Stati Uniti non mancherebbero i problemi, a cominciare dall’antipatia personale.  Biden ha definito Johnson  “ fisicamente ed emotivamente un clone di Trump”.

Memore delle radici irlandesi della sua propria famiglia e di milioni di elettori americani, Biden ha pubblicamente diffidato il governo britannico dal mettere in pericolo con la Brexit l’accordo di pace per l’Ulster firmato nel 1998.

Ma è anche vero che lo sfidante di queste Presidenziali  riporterebbe la politica estera americana nell’alveo tradizionale di cooperazione multilaterale, dove il Regno Unito ha sempre avuto un ruolo privilegiato. Ed anche i negoziati commerciali potrebbero seguire linee meno conflittuali, nel reciproco interesse di scambi rafforzati, una volta che il mercato britannico non sarà più sottoposto alle norme europee. Biden certamente guarderà con più attenzione di Trump a Berlino e Parigi, ma nemmeno lui potrà fare a meno della sponda britannica, soprattutto nei dossier di sicurezza e difesa.

Insomma la “special relationship” tra le due sponde dell’Atlantico è destinata a continuare in ogni caso, come ha detto Johnson sulla scia di tutti i suoi predecessori. Chi invece sembra avere le idee chiare sulle proprie preferenze sono i britannici. Nei tanti sondaggi di queste settimane solo il 19 per cento degli interpellati in Inghilterra dice di avere fiducia in un secondo mandato di Trump alla casa Bianca. Ma si sa, si vota solo in America.

Gli accordi di Abramo e l'ombra della Turchia. Perché Israele tifa per la rielezione di Trump

da Gerusalemme Raffaele Genah

C’è un passaggio di una conversazione tra Trump e Netanyahu che fotografa forse meglio di tante analisi e commenti l’atteggiamento con cui Israele segue la imminente tornata elettorale negli States. Lo scambio di battute avviene subito dopo l’annuncio degli accordi che normalizzano i rapporti tra Israele e Sudan. “Pensi che Sleepy Joe (riferendosi a Biden) poteva concludere una affare di questa portata?” La domanda di Trump all’amico capo del governo israeliano avrebbe lasciato immaginare una risposta che in quel contesto appariva quasi scontata.  Ma Netanyahu replica diplomaticamente: “Signor presidente, posso dire solo una cosa: accogliamo con favore qualsiasi aiuto possa venire dagli Stati Uniti e promuove la pace” aggiungendo subito dopo il riconoscimento per il percorso fatto: “… e tu, presidente, hai aiutato in modo eccezionale”.

I rapporti tra Trump e Netanyahu sono sempre stati eccellenti e il governo israeliano non ha mai fatto mistero di considerare Trump il presidente piu vicino alle proprie posizioni. E del resto lo stesso Trump alla vigilia delle ultima tornata elettorale - la terza in un anno - che avrebbe dovuto decidere da quale parte pendesse la incerta bilancia tra Netanyahu e Gantz aveva usato una formula abbastanza simile: indipendentemente da chi governa,“ i rapporti tra Stati Uniti e Israele stanno al di sopra e vengono prima di tutto”.

Ovviamente questo non significa che lo stesso Netanyahu, fuori dell’ufficialità non faccia mistero delle speranze che ripone nelle urne americane. Il rapporto tra Trump e Israele è sempre stato strettissimo e il primo atto ufficiale è stato nel maggio 2018 con lo spostamento dell’ ambasciata americana a Gerusalemme e il conseguente riconoscimento della città santa per le tre grandi religioni monoteiste come capitale dello stato di Israele. E Netanyahu pochi mesi dopo ha voluto ricambiare il gesto intitolando al presidente americano una intera collina, “Ramat Trump”, su cui sta nascendo un nuovo agglomerato urbano.

E poi la lunga gestazione del cosiddetto piano per il medio oriente più volte annunciato e poi presentato alla Casa Bianca come un risultato storico, un accordo che però una delle parti, quella palestinese ha sempre contestato e che ha poi respinto accusando gli Usa di aver fatto solo gli interessi israeliani e di aver di fatto calato definitivamente il sipario sulla possibile nascita di uno stato palestinese.

Ma il lascito più importante dell’amministrazione Trump al governo israeliano è stata quella trama di rapporti con paesi finora nemici, a cominciare dai regni e i sultanati del Golfo e poi successivamente con il Sudan –  fino ad allora nell'elenco degli stati che sostenevano il terrorismo jihadista - e che sono poi approdati negli “Accordi di Abramo”. Accordi che disegnano nuovi equilibri geopolitici dell’intera area mediorientale in chiave antisciita e antiraniana. E poi ancora, la spinta americana agli accordi per la definizione dei confini marittimi tra Israele e Libano al centro di una disputa per lo sfruttamento di un imponente giacimento naturale di gas.

Un quadro nel quale anche le possibili differenze di posizione, se non di vera e propria critica, sui comportamenti considerati più controversi da parte degli Usa risultano più sfumati. Ad esempio nei rapporti tra gli Usa e la Turchia di Erdogan, alleato Nato di peso sempre crescente su molti scacchieri della politica internazionale. E che preoccupano la comunità internazionale occidentale a partire dall’atteggiamento sui curdi in Siria, passando per la Libia, per arrivare infine alla posizione turca sul gas che mira a ridimensionare gli accordi tra Israele Cipro e Grecia rivendicando la competenza su alcuni tratti di mare che il governo di Atene considera parte del suo territorio.

Un terreno dunque particolarmente sensibile quello dei rapporti con la Turchia. “Biden - ha commentato sul quotidiano Haaretz Gabriel Mitchell dell’istituto per la politica estera nella regione - comprende i rischi che deriverebbero dall’alienare la Turchia e allo stesso modo capisce quanto sia difficile arrivare ad un approccio di consenso nei confronti di Ankara all’interno dll’East Mediterranean Gas Forum.

Politici e analisti seguono dunque con evidente e interessata attenzione il dibattito americano mentre le tifoserie locali come sempre in questi casi si dividono. Secondo un sondaggio realizzato nella prima decade di ottobre il 63,3 per cento degli israeliani opterebbe per la riconferma di Trump piuttosto che sulla vittoria di Biden (18,8). Un orientamento molto diverso da quello ipotizzato da altri sondaggi sul possibile voto della popolazione ebraica statunitense: il 75 per cento sarebbe -secondo questa simulazione commissionata da Ajc-American Jewish Congress- favorevole a Biden mentre solo il 22 per cento voterebbe Trump.