Sudafrica

L’eredità etica-politica di Desmond Tutu

L'arcivescovo fu protagonista, insieme a Nelson Mandela, della lotta di liberazione della popolazione nera sudafricana contro l’apartheid

L’eredità etica-politica di Desmond Tutu
Ansa
Desmond M. Tutu


Di Pierluigi Mele

 

Grande emozione, nell’opinione pubblica, ha suscitato la morte dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. 

Immenso protagonista, insieme a Nelson Mandela, della lotta di liberazione della popolazione nera sudafricana contro quel sistema atroce che è stato l’apartheid. Un sistema inumano, fatto di brutale segregazione razziale, di spietata violenza compiuta dai bianchi, gli afrikaner (ovvero i bianchi di religione calvinista). L’apartheid è durato dal 1945 al 1991, quando finalmente venne abolito dopo una lunga lotta.

La vicenda umana, religiosa e politica dell’Arcivescovo Tutu si svolge tutta in questa temperie. Un arco di tempo considerevole.

 Potremo dire che Desmond Tutu appartiene a quella schiera di testimoni, profeti, quegli “operatori di pace” di cui parla il Vangelo, che costituiscono la “corrente calda” della storia, che fanno fare all’umanità il salto di qualità, ovvero la svolta del cammino umano verso un mondo più giusto.

 In questo senso allora si può parlare di “eredità” che Desmond Tutu lascia alla società e alla politica contemporanea.

 A grandi linee possiamo, come ben ricordato da Riccardo Cristiano, dire che sono due i punti di questa eredità:

 Il primo riguarda il concetto di “giustizia riparativa”;

 Il secondo riguarda l’idea di società basata sulla fraternità, ovvero l’ubuntu (che, come sappiamo, è, anche, una delle radici della Fratelli Tutti di Papa Francesco).

 Per il primo punto ha scritto parole profonde il sociologo Luigi Manconi in un bell’articolo, uscito pochi giorni fa, sulla Stampa di Torino. Scrive Manconi che l’arcivescovo Tutu “ha tradotto in prassi esemplare una delle più fertili invenzioni filosofico-giuridiche del ‘900: la giustizia riparativa. Si tratta di quella forma di applicazione del diritto che mira a suturare la ferita determinata nelle relazioni sociali dalla commissione di un reato; e che non si limita a sanzionare la lesione inferta, ma opera per curarla. Si basa, pertanto, sulla responsabilizzazione dell’autore del reato nei confronti della parte offesa: e, di conseguenza, sull’esigenza di porre rimedio al danno inflitto attraverso la “riparazione” nei confronti della vittima e della collettività. In modo tale che il reo possa dimostrare di essere altro e più rispetto al reato commesso, così che non sia immobilizzato per sempre nel suo crimine. Il concetto nasce nel Nord America già negli anni ‘70 e trova le sue prime concrete applicazioni in quei paesi. Ma è la Commisione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica del dopo-apartheid che ne costituisce la più importante realizzazione: sia per il grande numero di persone coinvolte sia per il fatto di operare al termine di una crudele guerra civile. E perché la Commissione mirava a ricomporre una forma di unitа nazionale dopo una frattura talmente profonda da apparire irreparabile, e dopo sofferenze tanto atroci da essere percepite come non rimarginabili. La Commissione mise vittime e carnefici le une di fronte agli altri, senza mai confondere i rispettivi ruoli e solo dopo che i responsabili avevano riconosciuto le proprie colpe. Eppure, il confronto, certo assai doloroso, consente di andare alle radici delle cause individuali e collettive, soggettive e sociali delle politiche dell’odio” (Luigi Manconi, Tutu, giustizia e riconciliazione, La Stampa).

In questo senso va inteso il pensiero di Tutu quando afferma che “No future without Forgiveness” (nessun futuro senza il perdono). Il perdono è diventato così la base per la costruzione del nuovo Sud Africa.

 Sul secondo punto, ovvero l’ubuntu, prendiamo la  spiegazione di uno dei migliori interpreti di questo concetto dell’etica sociale africana, il padre gesuita Elias Opongo. Così in un saggio pubblicato sulla prestigiosa rivista dei gesuiti italiani, che si sta sempre più internazionalizzando, ci dà alcuni tratti dell’ubuntu: “La teoria africana dell’Ubuntu si riferisce ampiamente all’interconnessione che esiste all’interno dell’umanità e fra i suoi componenti, e al fatto che ‘la mia umanità trova la sua definizione fondamentale attraverso la tua umanità’. Questa definizione ontologica dell’Ubuntu si basa su tre princìpi: 1) l’umanità è essenzialmente progettata per coesistere in un’amicizia cosmologica; 2) i valori fondamentali dell’umanità possono essere realizzati soltanto tramite il riconoscimento della natura umana originaria dell’altra persona; 3) l’umanità è progettata per custodire e attuare il bene comune che la unisce. L’amicizia cosmologica insita nel concetto di Ubuntu pone l’accento sulle relazioni e sulla convivenza reciproca. Ossia, l’umanità dell’individuo si realizza solo attraverso la relazione con altri esseri umani con cui è in stretto rapporto, ma anche con quelli con i quali il rapporto è remoto. Questo concetto di relazione implica, in un certo senso, un’amicizia cosmologica fondata su un atteggiamento comune nei confronti dello sviluppo della società. La consapevolezza che ‘non posso essere felice da solo’ comporta che, per generare una società funzionale ed efficiente, il tessuto sociale deve basarsi sulla coscienza dell’esistenza dell’altro come agente attivo della felicità sociale e come potenziale e progressivo costruttore delle relazioni che definiscono quell’ordito societario. In altre parole, l’individualismo, sebbene possa condurre al successo, non contribuisce alla salute comunitaria della società”. (“Fratelli Tutti” e la Chiamata dell’Ubuntu all’amicizia cosmologica, Civiltà Cattolica n. 4102/2021).

 In questo passaggio è ben spiegato anche il collegamento con la “Fratelli Tutti” di Papa Francesco.

 Molte sono le implicazioni sociali di questa prospettiva che sono analizzati nell’articolo di Civiltà Cattolica : dalla società, ovvero le varie comunità, alla politica. In sintesi l’Ubuntu “riconosce - scrive Padre Opongo -riconosce l’intrinseca e originale natura dell’umanità dell’altro, definita come ‘dignità umana’. Questo porta a trascendere le differenze che esistono ai vari livelli - differenze etniche, religiose, di clan, regionali, ecc - e ad accogliere l’altra persona con atteggiamento di stima” (Civiltà Cattolica, pag.378).

 Per Tutu l’ubuntu rappresenta l’essenza dell’umano: “Diciamo che un personam (muntu) è tale per merito di altre persone (…)Una persona che Ubuntu  è generosa, magnanima , ospitale, accogliente, e ha grande stima degli altri”.(Desmond Tutu, Il mio Dio sovversivo, EMI 2011, pag. 32). Esemplare in questo, per Tutu, è stato Nelson Mandela.

 Invece l’uomo che esalta l’autosufficienza, negando così la relazione con l’altro, per Tutu è subumano. Sono parole dure, ma sono parole di verità.

 Alla radice del suo impegno , della sua etica politica c’è il Vangelo e la Bibbia: “Quando i potenti della terra ci rimproveravano perché facevamo quella bruttissima cosa che è mescolare la religione con la politica eravamo soliti rispondere: ‘Ma voi quale Bibbia leggete?“ Ovviamente non c’è nessun integralismo in Tutu, aveva ben presente la laicità dello Stato.

 Quella provocazione era rivolta ai potenti che usavano la Bibbia per giustificare le nefandezze e i crimini della discriminazione razziale, e per riaffermare che il Dio della Bibbia è un Dio di parte. Schierato dalla parte degli oppressi e dei disprezzati.

 Si può ben dire, allora, che Desmond Tutu è stato un autentico sovversivo, non violento, per amore di Dio e del suo popolo oppresso.