Codogno, due anni dopo

Il tampone e l’incredulità. Il racconto dell'anestesista che scoprì il paziente uno

Annalisa Malara ripercorre con noi quei drammatici giorni: “Ricordo ancora la paura, per il tampone fu necessario chiedere una autorizzazione speciale: me ne presi la responsabilità"

Il tampone e l’incredulità. Il racconto dell'anestesista che scoprì il paziente uno
Ansa
Annalisa Malara oggi lavora presso il policlinico San Matteo di Pavia

Annalisa Malara, 40 anni, di Cremona, due anni fa si trovava a Codogno come anestesista e rianimatrice. Fu lei a pensare all’impossibile, ad intuire, di fronte alla situazione critica di un 38enne ricoverato nel suo reparto, il primo caso di Covid in Italia, il primo caso certificato in Europa. In poche ore lui diventò il paziente 1 e lei il medico che lo scoprì.

Quel Covid-19 che tante vittime mieteva in Cina e che in Italia sembrava solo una minaccia lontana era già tra noi.

Il paziente 1 è Mattia Maestri, un giovane uomo in salute e sportivo, con una strana polmonite bilaterale non curabile con i soliti antibiotici. La mattina del 20 febbraio 2020, giorno in cui viene ricoverato in rianimazione, viene affidato alla dottoressa Malara. "Quando un malato non risponde alle cure normali, all'università mi hanno insegnato a non ignorare l'ipotesi peggiore. Mattia si era già presentato in pronto soccorso due giorni prima con una polmonite leggera. Poi dimesso e tornato in ospedale poco dopo perché le sue condizioni peggioravano vistosamente".

Come intuì che la verità poteva nascondersi nell'assurdo?

"Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Se il noto falliva, non mi restava che entrare nell'ignoto. Il coronavirus si era nascosto proprio qui… Mattia dal 14 febbraio aveva la solita influenza, che però non passava. Il 18 l’arrivo in pronto soccorso a Codogno e il riscontro di una leggera polmonite. Questione di poche ore: il 19 quella polmonite era già gravissima".

Il tampone fu immediato?

"Fu necessario chiedere autorizzazione all'azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi fu detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo”.

Tra i ricordi più forti di quei giorni?

“Dissero che l’ospedale aveva violato il protocollo e mi sentii responsabile. Avevo dato l’anima, rischiato il contagio e invece la cartella clinica veniva requisita dai Nas, per fortuna senza conseguenze… Fu l’inizio di tutto, con la prima zona rossa creata intorno a Codogno e altri dieci comuni il 23 febbraio 2020, con l’arrivo dei militari a presidiare i confini, le strade deserte con solo le ambulanze in giro. Ricordo ancora la paura, perché avevamo di fronte qualcosa di sconosciuto. Oggi però quella sensazione, sempre viva nel mio cuore, è un ricordo lontano. Sembra passato moltissimo tempo e invece sono solo due anni”.

Le capita di ripensare a quei momenti?

"Sì, spesso. È l’inizio di una situazione drammatica che ancora oggi stiamo gestendo. Ne parlo spesso con i miei colleghi del San Matteo. Ho raccontato a tutti quello che è stato per noi che lavoravamo negli ospedali dell’Asst di Lodi. Furono momenti drammatici, ci ritrovammo davanti il virus senza avere un’organizzazione ben definita".

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“Quel giorno tremavo per l’emozione, è stato tra i giorni più commoventi della mia vita. Ho sentito addosso la responsabilità e la gioia, la gratitudine negli sguardi dei pazienti, i malati in quei mesi drammatici avevano solo noi e un virus misterioso, che colpisce chiunque”

A due anni di distanza come è cambiata la situazione e il lavoro dei medici?

"Noi medici siamo stati definiti eroi, ma questa è la realtà di chi ogni giorno lavora con senso del dovere e abnegazione nella sanità. Spero però che questa vicenda serva a tenere acceso un faro costante su chi lavora negli ospedali. I sacrifici personali ci sono sempre stati e con l’emergenza si sono solo amplificati. Oggi abbiamo imparato a gestire la situazione e i pazienti che curiamo. La sanità è ancora rallentata a causa della patologia e abbiamo bisogno di riprendere la vita normale, le diagnosi, gli interventi. Purtroppo arrivano ancora in ospedale malati gravi che, nella maggior parte dei casi, sono persone non vaccinate. Questo fa tanta rabbia perché nei due anni passati tante persone avrebbero voluto un vaccino che purtroppo non c’era. Oggi non possiamo sprecare questa occasione, anche in nome delle tante vittime".