La lotta alla pandemia

Il punto su farmaci e terapie per combattere il Covid: dagli antivirali agli anticorpi monoclonali

Oggi ci sono diverse opportunità per contenere le conseguenze di Sars-CoV-2

Il punto su farmaci e terapie per combattere il Covid: dagli antivirali agli anticorpi monoclonali
(GettyImages)
Terapia intensiva

La pandemia non è ancora conclusa. Ma oggi le opportunità per contenere le conseguenze di Sars-CoV-2 ci sono. Profilattiche e terapeutiche. L’armamentario di farmaci disponibili contro il virus che provoca Covid-19 è divenuto mese dopo mese sempre più esteso. Con una distinzione fondamentale: ci sono principi attivi utilizzabili nelle cure domiciliari e altri riservati esclusivamente ai pazienti ricoverati. 

Le cure domiciliari

Sono state le ultime ad arrivare, ma d’ora in avanti il loro corretto utilizzo sarà di vitale importanza per due ragioni: evitare l’aggravarsi delle condizioni dei pazienti e l’aumentare della pressione sugli ospedali. Le cure domiciliari contro l’infezione da Sars-CoV-2 rappresentano l’arma in più di queste ultime settimane. Dopo aver combattuto per mesi le fake-news legate alla presunta disponibilità di farmaci utilizzabili nelle prime fasi della malattia, adesso la soluzione c’è. Ed è rappresentata dagli antivirali orali. Sono tre quelli approvati dall’Agenzia Italiana del Farmaco: paxlovid, molnupiravir e remdesivir. A poter essere assunti per via orale, però, sono soltanto i primi due. A beneficiare di questi farmaci sono gli adulti positivi che, pur non richiedendo il supporto dell’ossigeno, sono ad alto rischio di progressione verso forme severe di Covid-19. Ovvero coloro che presentano una delle seguenti condizioni: una malattia oncologica, la Bpco, l’insufficienza renale cronica, una immunodeficienza (primaria o acquisita), l’obesità, un diabete non compensato o una grave malattia cardiovascolare. Entrambi gli antivirali - il cui compito è quello di inibire l’attività di un componente che il virus impiega per assemblare le proteine di cui è costituito, con risultati di efficacia finora rilevati tra il 50 e il 95 per cento: per quel che riguarda i tassi di ospedalizzazione e i decessi - devono essere assunti entro cinque giorni dall’insorgenza dei sintomi. È compito del medico curante avviare quanto prima i contatti con i centri specialistici di riferimento per la loro prescrizione. Nel caso di paxlovid, che nasce dalla combinazione di un antivirale specifico contro Sars-Cov-2 (Nirmatrelvir) e di un vecchio farmaco utilizzato contro HIV (ritonavir), si tratta di assumere tre compresse (due di Nirmatrelvir e una di Ritonavir) ogni 12 ore per cinque giorni. Mentre Molnupiravir va assunto nel seguente modo: quattro compresse due volte al giorno, per cinque giorni.

Remdesivir, l’«altro» antivirale

Diverso è invece il caso del Remdesivir, tra i primi farmaci a balzare agli onori delle cronache per un suo potenziale utilizzo contro Covid-19. Dopo diversi studi clinici, l’Agenzia Europea (Ema) e poi quella Italiana del Farmaco (Aifa) sono giunti alla conclusione che può essere utilizzato fino a sette giorni dall’insorgenza dei sintomi nello stesso target di pazienti: ovvero coloro che hanno una forma non grave di malattia, ma che per le loro condizioni sono a rischio di progressione. La durata del trattamento, che consiste in una somministrazione endovenosa, è di tre giorni. Questa, però, deve avvenire in ospedale. Da qui un limite in più - oltre alla modalità di assunzione - rispetto alle due «pillole» sopracitate.

Gli anticorpi monoclonali

Sempre dell’accesso in ospedale (senza ricovero) necessitano gli anticorpi monoclonali, che presentano un rischio bassissimo di effetti collaterali. Il target dei pazienti è il medesimo: coloro che sono positivi e che, seppur in grado di gestire la malattia a casa, presentano un elevato rischio di progressione. Il punto di debolezza sta nel fatto che tutti agiscono sulla proteina Spike del virus, soggetta a mutazioni. Le combinazioni di anticorpi - quelli disponibili nel nostro Paese sono bamlanivimab (soprattutto in combinazione con etesevimab), il mix casirivimab-imdevimab (Regeneron/Roche) e sotrovimab - risultano più efficaci perché colpiscono diversi punti contemporaneamente. Fa eccezione sotrovimab: si tratta di un anticorpo isolato da un paziente guarito da Sars (epidemia del 2003), che si lega a un epitopo della Spike conservato in tutti i coronavirus. Anche in questo caso, la precocità della somministrazione fa la differenza. Gli anticorpi monoclonali devono essere iniettati entro 72 ore dall’infezione e non oltre dieci giorni dall’insorgenza dei sintomi. Discorso diverso invece per altre due molecole di questo tipo: tocilizumab e sarilumab. L’indicazione all’uso, in questo caso, riguarda i pazienti ospedalizzati: con una rapida progressione della malattia (documentata anche dall’aumento degli indici infiammatori) e costretti all’ossigenoterapia. L’obbiettivo, in questo caso, è evitare la cosiddetta tempesta di citochine, in grado di determinare una forte infiammazione, danneggiare i vari organi e provocare la sindrome da distress respiratorio acuto. 

Cortisone ed eparina

Diverse sono invece le opzioni terapeutiche per i pazienti costretti al ricovero da Covid-19. In questo caso si è di fronte a persone in cui l’infezione è già progredita e ha reso necessaria l’ospedalizzazione. È nei reparti di area medica che si ricorre al cortisone, in quei malati che non hanno comunque ancora bisogno di ossigeno. L’utilizzo di questi farmaci di supporto (con azione antinfiammatoria e immunosoppressiva) è quasi del tutto limitato ai pazienti ospedalizzati, soprattutto per quella che potrebbe essere la gestione di eventuali effetti collaterali. A domicilio possono essere raccomandati - dunque mai assunti senza l’indicazione di uno specialista - nei pazienti che iniziano a presentare un aggravamento delle condizioni respiratorie e in presenza di una forte pressione sugli ospedali che potrebbe far slittare il ricovero. In ospedale possono essere somministrate anche le eparine, il cui utilizzo è però limitato ai pazienti con ridotta mobilità e di conseguenza esposti all’eventualità di sviluppare fenomeni di trombosi.

Quando serve il supporto respiratorio?

La comparsa della sindrome da distress respiratorio acuto - rendendo i polmoni incapaci di effettuare gli scambi tra ossigeno e anidride carbonica - è la condizione che rende necessario il ricovero in terapia intensiva. Eventualità divenuta più rara grazie all’avvento dei vaccini, ma non per questo scomparsa. Qui l’approccio terapeutico è cucito su misura del singolo paziente: considerando le sue condizioni di partenza, l’età, il grado di insufficienza respiratoria e la necessità (eventuale) di supportare l’attività di altri organi. In questa fase, il supporto dell'ossigenoterapia è necessario. Nei reparti di pneumologia, medicina e malattie infettive i pazienti (con un'insufficienza respiratoria di grado lieve o moderato) possono ricevere l’ossigeno mediante le maschere, le cannule nasali, la CPAP (la stessa che viene utilizzata nel trattamento delle apnee ostruttive del sonno) e il casco. Tra tutti, quest'ultimo, in grado di erogare ossigeno a pressioni molto alte, sembra il dispositivo più efficace per prevenire il ricorso a tecniche di supporto invasive in terapia intensiva. Inoltre è più confortevole rispetto alle altre interfacce per la ventilazione non invasiva. Questo consente trattamenti con poche interruzioni, che sembrerebbe essere una caratteristica fondamentale per evitare l’intubazione.

Quando non c’è alternativa alla terapia intensiva

Uno scenario che diventa inevitabile quando, diverse ore dopo il ricorso all’ossigenoterapia, le condizioni di un paziente rimangono invariate o peggiorano. In questi casi non c’è alternativa all’intubazione, che porta il paziente (in terapia intensiva) a ricevere ossigeno direttamente all'interno dei polmoni e a essere supportato nell'eliminazione dell'anidride carbonica. Il tutto mentre è sedato, in modo da lasciarlo a riposo. Le prime 24-48 ore sono indicative del decorso della malattia. Se la gravità del quadro non si attenua, in terapia intensiva il paziente può essere posto a pancia in giù. I rianimatori raccomandano di procedere alla pronazione - grazie a cui si ottiene una migliore distribuzione tra le zone aerate del polmone e il circolo capillare: da qui la migliore ossigenazione del sangue - entro i tre giorni dall'ingresso in terapia intensiva e per 12-16 ore al giorno. Se le condizioni del malato migliorano, dopo 7-10 giorni, si dà il via allo «svezzamento»: si rimuove la quantità di ossigeno immessa nell'organismo in maniera forzata, si rimuove il tubo orotracheale, si aiuta il malato con un supporto non invasivo e lo si trasferisce in un altro reparto per monitorare il decorso della malattia. Se invece non si registrano progressi, si procede con la tracheotomia. In questo caso, il tubo inserito attraverso la bocca viene sostituito da una cannula inserita direttamente nella trachea attraverso un'incisione chirurgica all'altezza del collo. La procedura ha l'obbiettivo di alleggerire il malato (la cannula è generalmente più tollerata rispetto al tubo orotracheale) e di «svezzarlo» con tempi più lunghi.

Le soluzioni «estreme»

La tracheotomia può non essere l’ultima tappa nel percorso terapeutico dalle forme più gravi di Covid-19. L’extrema ratio è rappresentata infatti dal ricorso alla circolazione extracorporea (ECMO), grazie alla quale il sangue viene prelevato dal paziente e immesso nel polmone artificiale: in modo da garantire il corretto scambio dei gas. Ancora a livello sperimentale, ma con risultati incoraggianti, da considerare è anche l'ipotesi di ricorrere al trapianto di polmone. In attesa di consolidare la casistica, l'indicazione è di prediligere i pazienti con meno di 65 anni e in buona salute (non fumatori, normopeso). Coscienti, ma con una lesione polmonare estesa al punto da poter essere curata soltanto con il trapianto dell'organo.