L'analisi

La fine del governo Draghi. Cosa è successo e perché

Dai primi scricchiolii della maggioranza al voto di fiducia in Senato, fino alle ipotesi sulle date delle prossime elezioni

La fine del governo Draghi. Cosa è successo e perché
(Antonio Masiello/Getty Images)
Mario Draghi in Senato durante il dibattito sulla fiducia. Roma, 20 luglio 2022

La caduta di Draghi

È finita. “Dimissioni irrevocabili”. Mario Draghi è salito al Colle in mattinata, dopo un breve intervento alla Camera: "Vado al Quirinale a comunicare le mie determinazioni".

Ieri si era consumata al Senato la fine del suo governo. È stata la presidente Casellati a declamare l’esito del voto di fiducia: “Presenti 192, votanti 133, favorevoli 95, contrari 38”. Il governo di unità nazionale non esiste più. 

Giorgetti, amico ed estimatore di Super Mario nelle file della Lega, riassume con lucidità ciò che nessuno, alla viglia della crisi, si aspettava: “Un governo che cade senza che il Parlamento abbia la forza di votare contro”. Anzi, tutti nelle file del governo, a parole, vogliono Draghi. Lo richiedono per un bis o lo propongono come l’unica figura che possa continuare a guidare il Paese. Ma, alla conta dei fatti, si andrà a nuove elezioni, come aveva invocato da subito il partito d’opposizione Fratelli d’Italia. Finisce così la corsa dell’ex governatore della Bce, prima corteggiato, poi sostenuto, poi fermato nella corsa al Quirinale perché ritenuto indispensabile a Palazzo Chigi. E, allora, cos’è successo e come si è arrivati a questa crisi iniziata da un partito della maggioranza, i Cinque Stelle, e portata a compimento da altri partiti, sempre di maggioranza, Forza Italia e Lega? Come è stata possibile questa guerra dei Roses, cominciata da un inceneritore locale e finita bruciando un governo durato soli 17 mesi? 

Le tappe della crisi

Partiamo con la cronaca dei 6 momenti della giornata di ieri 20 luglio e le 12 ore in cui si è consumata la fine della legislatura. 

Alle 9.47 Draghi prende la parola in Senato. Rilancia la questione della crisi e delle sue dimissioni nel campo dei partiti: chiedo ai partiti se hanno “il coraggio e l’altruismo” di ricostruire il patto di governo. “Siete pronti a riscriverlo?”. Quel “siete pronti” risuona nell’emiciclo dell’aula per 4 volte.

Alle 11.30 comincia la discussione con gli interventi dei vari gruppi parlamentari. Si capisce che il Centrodestra e, in particolare, la Lega alzano la posta in gioco. Il capogruppo della Lega Romeo chiede un Draghi bis senza il M5S, perché: “Il 14 luglio si è determinata in Parlamento una nuova maggioranza”.

Alle 13.00 i leader del Centrodestra di governo si vedono nella villa sull’Appia di Silvio Berlusconi. Lì viene messa a punto la strategia, politicamente spendibile, costruita su due alternative opzioni: “Ottenere un nuovo governo Draghi senza il M5S e con un rimpasto dei ministri a trazione Lega e FI, oppure andare a nuove elezioni e raccogliere dagli elettori i consensi che, stando ai sondaggi, premierebbero il Centrodestra. 

Alle 14.51 vengono presentate due diverse risoluzioni della crisi, quella di Calderoli che esclude il M5S e quella di Casini che rinnova la fiducia nel proseguimento del governo.

Alle 17.00 Draghi replica in Aula non concedendo niente alle richieste del Centrodestra e dei Cinque Stelle, ma limitandosi a porre la questione di fiducia sulla risoluzione di Casini. Due righe, definitive, che lasciano tutto uguale. È l’all-in di Draghi. Prendere o lasciare: “Il Senato, udite le comunicazioni del Presidente del Consiglio, le approva”.

Alle 20.13 Draghi raccoglie 95 sì e 38 no. A garantire il numero legale ci pensa il Movimento Cinque Stelle, con la formula “presente non votante”.

 

I sintomi della crisi

Il 19 luglio il segretario del Pd Enrico Letta viene avvistato alle 9.47 da un giornalista del Foglio dalle parti di Montecitorio, era appena uscito da un colloquio di un’ora col premier Mario Draghi. È la goccia che fa traboccare il vaso. Tutto il Centrodestra interpreta questo incontro esclusivo con Letta e non con ognuno dei leader dei partiti di governo come una manovra di Palazzo per consolidare l’asse col PD ed escludere gli altri dalle scelte sul possibile rimpasto, con nuovi ministri.

La crisi però comincia ufficialmente la settimana precedente, quando giovedì 14 luglio il Movimento 5 Stelle non vota la fiducia sul Dl Aiuti. Draghi a quel punto sale al Quirinale e rassegna le dimissioni, poi respinte da Mattarella con la richiesta di andare a cercare la fiducia in Parlamento il 20 luglio. Il premier ribadisce a più riprese che non avrebbe guidato un governo senza i Cinque Stelle. Da quel momento si apre una settimana di contatti e trattative frenetiche per evitare la crisi di governo. Conte chiede la conferma di tre punti irrinunciabili: superbonus, reddito di cittadinanza e inceneritore di Roma.

Il 6 luglio il leader del Movimento 5 Stelle aveva presentato nove richieste, punti programmatici da realizzare per continuare a far parte del governo

Il 29 giugno una fotografia aveva immortalato Mario Draghi, al telefono, seduto da solo, lontano dagli altri leader, al museo del Prado di Madrid, ed era diventata oggetto di meme sui social. È il simbolo plastico della crisi imminente. Il premier italiano si trovava in Spagna per il vertice Nato ed era stato invitato nelle sale museali per una cena euroatlantica fra tutti i capi di Stato. Dopo l'evento, Draghi è però dovuto ripartire anticipatamente alla volta di Roma. Nel governo si respirava già aria di crisi, anche se ufficialmente si è cercato di gettare acqua sul fuoco. La motivazione ufficiale era il Consiglio dei ministri dell’indomani sul caro bollette e sull’assestamento di bilancio. Ma è chiaro che aveva a che fare con la tensione che si respirava nel governo. Prima di partire, il presidente del Consiglio aveva provato a rassicurare tutti: "Il governo non rischia". Il giorno prima il leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, era stato ricevuto al Quirinale, dove aveva avuto un colloquio di un'ora con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

 

 

Mario Draghi al Museo del Prado, Madrid, 29 giugno 2022 (epa/ballesteros/Ansa)
Mario Draghi al Museo del Prado, Madrid, 29 giugno 2022

Le prossime elezioni

Quando si andrà al voto? 

Tre sono le possibili date: 18 settembre, 25 settembre o 2 ottobre. Fonti di governo fanno sapere che la prima sarebbe quella sulla quale si sta ragionando. La scelta potrebbe andare a incidere sulla data dello scioglimento delle Camere.

Come si decide la data?

Per decidere il giorno è necessario combinare le date di tutto l'iter previsto dalla Costituzione. In base all'articolo 61, le elezioni vengono indette con decreto del governo "entro 70 giorni dopo lo scioglimento delle Camere. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni. Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti". A questa disposizione occorre aggiungere la norma elettorale per cui il decreto che fissa la data del voto deve essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale "non oltre il quarantacinquesimo giorno antecedente quello della votazione". Va infine considerata la disposizione relativa al voto degli italiani all'estero, che prevede che l'elenco provvisorio degli aventi diritto vada comunicato dal ministero dell'Interno a quello degli Esteri 60 giorni prima della data delle elezioni. 

Quando saranno sciolte le Camere? 

Se il Capo dello Stato decidesse di procedere oggi allo scioglimento delle Camere, a quel punto diventerebbe impossibile votare il 2 ottobre, in quanto si andrebbe oltre i 70 giorni dallo scioglimento del Parlamento, previsti dall'articolo 61 della Costituzione. Invece, sciogliendo le Camere nel prossimo fine settimana, sarebbe possibile votare sia il 25 settembre, se si considera il termine dei 60 giorni, sia il 2 ottobre, in questo caso però partendo da domenica prossima, 24 luglio. Difficile ipotizzare un voto trascorsi soltanto 45 giorni dalla fissazione della data delle elezioni: significherebbe andare alle urne l'11 settembre, con adempimenti e breve campagna elettorale in pieno agosto. 

Quando si potrebbe riunire il nuovo Parlamento?

Tornando all'articolo 61 della Costituzione, nel decreto che fissa la data delle elezioni viene anche indicata quella per la riunione del nuovo Parlamento, che in caso di voto il 18 settembre sarebbe possibile il 7 ottobre, una settimana dopo, il 14, in caso di urne il 25 settembre. Se infine si votasse il 2 ottobre il Parlamento potrebbe riunirsi il 21 ottobre.