Il sostituto procuratore ricorre in Cassazione

Torino, Corte d'Appello assolve giovane dall'accusa di violenza: "La ragazza lo ha indotto ad osare"

L'avvocato Bocciolini a Rainews.it dice: "La prova non può e non deve essere rimessa sulla persona offesa. La donna non può essere vittima due volte"

Torino, Corte d'Appello assolve giovane dall'accusa di violenza: "La ragazza lo ha indotto ad osare"
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Il palazzo di Giustizia "Bruno Caccia" a Torino

La storia inizia in un bar a Torino. Siamo a maggio 2019. Due giovani ventenni che si conoscono da oltre 5 anni si incontrano per un aperitivo. Quello che accade dopo finisce in un’aula di Tribunale e porta da una sentenza di Corte d’Appello che fa discutere e che viene impugnata in Cassazione dal sostituto procuratore Nicoletta Quaglino.

Proviamo a ricostruire il caso. In primo grado il ragazzo viene condannato, con rito abbreviato,  per violenza sessuale a 2 anni, 2 mesi e 20 giorni. Per il gup sulla violenza non vi era dubbio come sul dissenso, La ragazza  nella sua deposizione davanti al giudice di primo grado ricordando l’evento ha detto: “Ho ripetuto più volte a lui: Che cazzo stai facendo? Non voglio”.

Ma per la Corte d’Appello di Torino questo non è sembrato valere tanto che negli atti si legge: “ Al momento dei fatti la ragazza era alterata per un uso smodato di alcol….è quindi altamente probabile che non fosse pienamente in sé quando richiese di accedere al bagno, provocò l’avvicinamento del giovane che invero la stava attendendo dietro la porta, custodendo la sua borsetta: non solo, ma si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire”.

Altro raffronto tra le due sentenze è relativo alla zip dei pantaloni che per il gup era “un’ulteriore rilevanza acquisita” mentre per la Corte d’Appello: ” L’unico dato indicativo del presunto abuso potrebbe essere considerato la cerniera rotta, ma l’uomo non ha negato di aver aperto i pantaloni della giovane, ragione per cui nulla può escludere che sull’esaltazione del momento, la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura”.

I due ragazzi erano amici, si erano scambiati qualche bacio ma l’avvocato Elisa Civallero, che tutela la ragazza, ha dichiarato che la sua assistita era stata molto chiara  e il gup, in primo grado, aveva argomentato: “Ci teneva a chiarire con l’amico che il bacio scambiato al loro precedente incontro era da intendersi come un fatto episodico, in quando lei non aveva alcuna intenzione di iniziare una relazione sentimentale”. Il ragazzo però non si sarebbe arreso dicendosi disponibile a iniziare un a relazione quando lei avesse voluto.

Secondo il ricorso firmato dal sostituto procuratore generale Nicoletta Quaglino: “la corte dimostra di non applicare i principi giurisprudenziali in tema di consenso all’atto sessuale. Illogica appare la sentenza quando esclude la sussistenza del dissenso, sia perché tale dissenso risulta manifestato con parole e gesti, sia perché nessun comportamento precedente può aver indotto l’agente in errore sulla eventuale sussistenza di un presunto consenso. Dunque non risulta provata la mancanza di dissenso da parte delle persona offesa, anzi risulta evidente la sussistenza di un dissenso manifesto”.

Il parere dell'avvocato

A Rainews.it l’avvocato Daniele Bocciolini, penalista, spiega che “per i giudici di merito spesso è ancora difficile stabilire quando si configura la violenza perché in alcuni casi può non essere chiaro se l’uomo abbia correttamente interpretato la volontà della donna. Ma in questi casi la “prova diabolica” non può e non deve - a mio sommesso giudizio - essere rimessa sulla persona offesa, le dichiarazioni della quale anche in assenza di riscontri possono essere sufficienti a fondare l’affermazione della penale responsabilità. La donna non può essere vittima due volte.  In alcune pronunce  si riflette ancora l’anacronistico orientamento giurisprudenziale che, adottando un’interpretazione restrittiva del requisito della costrizione previsto dalla fattispecie, non ravvisa la punibilità degli atti sessuali compiuti in mancanza di un esplicito dissenso della vittima, finendo così per porre in capo ad essa l’onere di resistere all’atto sessuale che le viene imposto. Occorre cambiare la prospettiva sul punto e seguire un orientamento più rigoroso. Non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative introdotte a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 66 del 1996, un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato un onere, neppure implicito, di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera di intimità sessuale, dovendosi al contrario ritenere che tale dissenso sia da presumersi. Secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, la rilevanza penale di un atto sessuale imposto non può ritenersi condizionata alla manifestazione di un dissenso da parte della vittima; al contrario, essa viene meno soltanto in presenza di «segni chiari ed univoci» di consenso da parte di quest’ultima. Solo in questi casi la condotta non è punibile. Anche dal punto di vista psicologico dell’uomo, è sufficiente che lo stesso abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte della donna al compimento degli atti sessuali a suo carico. Questo caso richiama  l’attenzione sulla necessità di una riforma legislativa che incentri la fattispecie di violenza sessuale non solo sul concetto di “costringimento” spesso fuorviante ma  sulla mancanza di consenso della vittima. 

Un intervento in questa direzione rappresenta per l’Italia un impegno assunto nel 2013 mediante la ratifica della Convenzione di Istanbul e tutt’oggi inadempiuto. . A suggerire una riforma in questo senso è anche il rapporto speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne del 2021.