Libia, il mosaico scomposto che fa gola a tutti

Terra di opportunità o "scatola di sabbia", la Libia è lacerata e instabile dai tempi di Gheddafi. Ricca di gas e petrolio, contesa da potenze regionali come Egitto e Turchia, crocevia di migrazioni. Lo scenario del viaggio di Giorgia Meloni

Libia, il mosaico scomposto che fa gola a tutti
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mappa Libia

L’Italia da sempre ha con la Libia un rapporto strategico. E’ il primo partner commerciale di tripoli, con affari per 12 miliardi di euro, pari a circa un quarto delle importazioni totali.

L’economia libica poggia per il 97% su gas e petrolio, settore i cui investimenti sono però bloccati da undici anni di guerra e divisioni tra est e ovest. Questi investimenti aspettano di essere rilanciati per sfruttare ricchi giacimenti di gas nel mare al largo di Tripoli, con progetti di cui l’italiana Eni è protagonista: in Libia dal 1959, Eni non ha mai abbandonato il Paese, è la prima compagnia straniera ed è comproprietaria del gasdotto che dal 2004 collega Mellitah a Gela.

Il problema resta l’affidabilità di una Libia divisa. Con la mediazione di Onu, Stati Uniti, Egitto (che sostiene la Cirenaica di Kalifa Haftar), e Turchia (alleata della Tripolitania guidata da Abdul Hamid Dbeibeh), da mesi si cerca un accordo per le elezioni politiche, già saltate alla fine del 2021, che dovrebbero riunificare il Paese.

Ma Tripoli e Tobruk, in qualche modo, sono comunque entrambe controparti della missione italiana, che fa tappa solo nella Tripoli di Dbeibeh, è vero, ma coinvolge anche la Noc, compagnia petrolifera di stato oggi guidata proprio da un uomo di Haftar, Farhat Bengdara. 

E’ infatti proprio Bengdara a firmare con Eni gli accordi sui nuovi 8 miliardi di investimenti, nonostante le proteste del premier parallelo, Fathi Bashaga, preoccupato che la missione della Meloni diventi un formale riconoscimento dell’avversario.

Più complesso il dossier migranti. Gli accordi con l’Italia per migliorare il pattugliamento delle coste in questi ultimi anni non sono riusciti a fermare i trafficanti di uomini che alimentano le partenze illegali via mare, perché il controllo del territorio è in realtà nelle mani di decine di bande armate ed eserciti privati spesso complici delle organizzazioni criminali.

Per un contrasto vero al business delle migrazioni illegali, occorre stabilizzare e riunificare il Paese. Una partita delicata, complicata dagli interessi che altri Paesi hanno verso la Libia.

Libia, Haftar e Dbeibeh Rainews.it
Libia, Haftar e Dbeibeh

Il labirinto di un conflitto tribale, gli appetiti dei vicini ambiziosi

L'Egitto, insieme agli Emirati arabi uniti, è vicino alla Cirenaica, ampia regione orientale confinante con l’Egitto, il cui esercito nazionale è comandato dal generale Haftar, protagonista della guerra civile divampata nel 2014, due anni dopo la caduta di Gheddafi, con l’obiettivo di prendere il controllo di tutto il paese, in particolare della compagnia petrolifera e della banca centrale, conquistando Tripoli e spodestando il Governo di Accordo Nazionale guidato all’epoca da Al Serraji, sostenuto da Turchia e Qatar. 

Insieme all’Egitto, dunque, l’altro Paese direttamente coinvolto nella questione libica, è proprio la Turchia che nel 2020, quando la caduta di una Tripoli sotto assedio sembrava ormai imminente, è intervenuta militarmente nel conflitto salvando Al Serraji: sia inviando truppe, per lo più mercenari; sia impiegando i propri droni per bombardare l’esercito della Cirenaica. 

L’intervento turco spinse Serraji e Haftar alla tregua, arrivata ad agosto del 2020, e poi agli accordi – mediati dall’Onu – che insediarono a marzo 2021 il governo provvisorio di Dbeibeh, il quale aveva il compito di gestire le elezioni, fissate al 24 dicembre 2021, per la riunificazione politica del paese.

Quelle elezioni non si sono mai svolte, per una serie di contrasti sulle “regole” relative alle candidature. sia Dbeibeh che Haftar intendevano e ancora oggi intendono candidarsi alla guida della Libia, ma una serie di veti incrociati hanno impedito di trovare una base “costituzionale” condivisa che permetta ad entrambi di correre per la presidenza. 

Gli accordi prevedevano anche che, prima del voto, venissero ritirate le truppe straniere presenti nel Paese, compreso un contingente dei mercenari della Wagner, inviato dalla Russia a sostegno di Haftar. 

Altro punto da realizzare prima delle urne era il disarmo delle milizie private, seguito dalla riunificazione delle forze armate e degli apparati di sicurezza.

Tutti impegni che non sono mai stati rispettati, mentre la Turchia, nella confusione generale, ha chiuso con Tripoli accordi - contrari al diritto internazionale - in base ai quali comunque accampa pretese sui giacimenti di gas del mediterraneo orientale. 

Su tutto questo si continua a trattare. 

I colloqui tra le fazioni libiche da mesi si svolgono al Cairo, con la mediazione egiziana, tra delegazioni dei contrapposti organi legislativi, cioè la camera dei rappresentanti, che ha sede a Tobruk e sostiene il governo Bashaga, e l’Alto Consiglio di Stato, il “Senato” che ha sede a Tripoli e sostiene il premier Dbeibeh. Due settimane fa, dopo l’ultimo round di trattative, il portavoce della Camera dei Rappresentanti, Aguila Saleh, ha annunciato che c’è un’intesa sulle regole per le candidature, dicendosi ottimista sulla possibilità di andare alle urne entro il prossimo settembre. Ottimismo ridimensionato, poche ore dopo, dallo stesso Saleh, precisando che l’accordo è ancora in una fase embrionale. Parole identiche ha usato il capo del Consiglio di Stato, Khalid al Mishri, raffreddando gli entusiasmi degli osservatori internazionali.

Una tela di Penelope intricatissima, che spiega la ragione per cui, sul fronte internazionale, la diplomazia italiana sta lavorando anche a stretto contatto con Egitto e Turchia, Paesi cruciali per raggiungere l’obiettivo di una concreta stabilizzazione della Libia.