Stellantis

"La crisi dell'auto ha radici internazionali. Elkann non può tradire l'Italia"

Intervista a Giuseppe Sabella

"La crisi dell'auto ha radici internazionali. Elkann non può tradire l'Italia"
ansa
Carlos Tavares

Com’è noto, Carlos Tavares ha rilasciato alcune dichiarazioni – in particolare in un’intervista a Bloomberg – che stanno facendo molto discutere. L’amministratore delegato di Stellantis sostiene che l’assenza di sussidi per l’acquisto di veicoli elettrici mette a rischio gli impianti in Italia. In queste ore, inoltre, si sono succedute voci, dalla Francia, che parlavano di una super alleanza europea tra Stellantis e Renault . Voci che sono state smentite da John Elkann. Il presidente di Stellantis ha dichiarato che "non esiste alcun piano allo studio riguardante operazioni di fusione di Stellantis con altri costruttori. La società è concentrata sull'esecuzione del piano strategico 'dare forward' e nella puntuale realizzazione dei progetti annunciati, per rafforzare la sua attività in ogni mercato dove è presente, inclusa l'Italia. In questo quadro, Stellantis è impegnata al tavolo automotive promosso dal Mimit, che vede uniti il Governo italiano con tutti gli attori della filiera nel raggiungimento di importanti obiettivi comuni per affrontare insieme le sfide della transizione energetica".  Però sempre sul fronte aziendale vi è l’annuncio, fatto oggi ai sindacati, che per il mese di marzo l’azienda prevede per i 2260 operai di Mirafiori la cassa integrazione . Le linee della Maserati e della 500 elettrica non si fermeranno completamente, ma lavoreranno su un solo turno. Della situazione di Stellantis abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore del think tank Oikonova.

 

Sabella, Tavares accusa il governo italiano di non concentrarsi a sufficienza sulla salvaguardia dei posti di lavoro nel settore automobilistico. Ha ragione l’amministratore delegato di Stellantis?

In realtà, la situazione è più intricata di quel che Tavares dice. Certamente, il governo italiano – in questo anno e mezzo – ha mostrato un po’ di debolezza sullo sviluppo economico e molta timidezza sulla politica industriale, espressione di cui molti diffidano. Resta il fatto, tuttavia, che tutte le economie avanzate stanno facendo politiche di questo tipo quindi, in primis, non vi è nulla di cui diffidare; in secondo luogo, bisogna che l’Italia sia un po’ meno timida, visto che il manufacturing è proprio il settore che si porta dietro il 60% del nostro pil. Il governo italiano ha inizialmente mostrato un po’ di resistenza alla cosiddetta “Transizione verde” ma – al di là di come la vogliamo chiamare (ecologica o energetica) – pare ora aver compreso che si tratta di un percorso irreversibile.

Perché la situazione sarebbe più intricata di quel che Tavares dice?

Anzitutto, in tutta Europa le vendite dell’auto elettrica si stanno tenendo su livelli modesti. Stellantis in particolare è un player che ha investito molto in questa tecnologia – è questa la ragione per cui nel 2019 il Lingotto è andato a cercare PSA – e, naturalmente, ora Tavares ha qualche timore sul futuro del mercato. Dico che la situazione è molto intricata perché, al di là degli incentivi che possono essere attivati, vi sono due problemi fondamentali: il primo è il costo dell’auto elettrica, ancora lontana da economie di scala e quindi non alla portata del mass market; il secondo è la debolezza della rete infrastrutturale, da cui nasce la diffidenza del cliente/consumatore. Questo, in sintesi, è il fattore che più di altri tiene fermo il mercato ma, ahimè, non è imputabile a scelte politiche – sarebbe più semplice risolverlo – bensì alla complicata situazione internazionale. In questo senso, credo che gli incentivi annunciati dal Ministro Adolfo Urso (940 milioni di euro) non sortiranno grandi effetti.

In che senso la debolezza della rete infrastrutturale per la mobilità elettrica non è imputabile alle Istituzioni ma alla complicata situazione internazionale?

Il programma Green Deal, che viene presentato da Ursula von der Leyen nel dicembre del 2019 ma la cui gestione risale al triennio 2017-2019 (commissione Juncker), già prevedeva un imponente rafforzamento della rete di colonnine in tutta Europa. Questa cosa non è avvenuta perché, già nel 2020 durante il primo lockdown, abbiamo visto innescarsi una pericolosissima – per l’Europa in particolare – crisi delle materie prime, poi aggravatasi con il conflitto in Ucraina, con un’inflazione a due cifre che non si vedeva da 30 anni. In sintesi, in una condizione così critica per l’approvvigionamento di commodities in generale, un progetto imponente come la modernizzazione delle infrastrutture si è rivelato insostenibile. Il rischio era quello di ritrovarsi con un’inflazione ingovernabile. Oggi, dopo la guerra in Ucraina, facciamo i conti anche con la crisi in Medioriente e con quella di Suez. Naturalmente, in questa situazione conflittuale a livello internazionale, c’è chi ne trae vantaggio. Per l’Europa, invece, questi sono tutti fattori che generano problemi e che rallentano l’economia e la Transizione.

Chi trae vantaggio da questa situazione di instabilità?

Certamente la Russia, che è uno dei paesi che più estraggono oil and gas. Ma anche la Cina: più l’Europa soffre, più dipende da Pechino. È chiaro tuttavia che, tra dieci anni, quei Paesi le cui economie più ruotano attorno alle esportazioni di combustibili fossili saranno molto ridimensionati. Il rischio è, però, che questo ridimensionamento produca conflitti. Quindi bisognerà prestarvi molta attenzione. Credo che questo sia il fattore che più di ogni altro determinerà il nuovo quadro internazionale.

In base a cosa, come diceva prima, il governo avrebbe compreso che, nello specifico, la Transizione verde è un percorso irreversibile?

Intanto, proprio in questi giorni, quando il ministro Urso, nel corso del tavolo automotive al Mimit, ha annunciato le risorse per il Piano incentivi auto 2024, ha detto che “il piano punta a svecchiare il parco auto in Italia supportando i redditi bassi per l’acquisto di auto ecologiche”. Il governo ha compreso, al di là delle schermaglie politiche, che la trasformazione della mobilità arriva dal cuore dell’industria europea più che da Bruxelles: Stellantis, Renault, Volkswagen… sono loro ad aver spinto per il cambio di passo, dopo l’esplosione del fenomeno Tesla. Del resto, lo si capisce anche da ciò che dicono Carlos Tavares e Oliver Blume (ad Volkswagen) quando affermano che le loro fabbriche arriveranno prima del 2035 a produrre soltanto veicoli elettrici. Volkswagen, su 180 miliardi di euro di investimenti previsti nel periodo 2023-2027, ne destinerà circa due terzi ai veicoli elettrici. Poi, certo, in minima parte si continueranno a produrre veicoli col motore a combustione interna, ma con innovazioni sensibili.

A cosa allude?

Alludo agli e-fuel e ai biocarburanti. È chiaro, peraltro, che il trasporto pesante non potrà alimentarsi con la tecnologia elettrica, servirebbero batterie molto grandi. L’approvazione degli e-fuel, circa un anno fa in sede di consiglio europeo, salva in qualche modo il motore endotermico. Andrà a finire che la Commissione europea dirà che i costruttori potranno – in una percentuale da definire rispetto alla loro produzione – realizzare anche veicoli con motori alimentati da e-fuel piuttosto che, lo vedremo, da biocarburanti, su cui in Italia si è investito molto. In Italia, è Eni a produrre i biocarburanti, a Marghera e a Gela: sappiamo che la multinazionale italiana intende portare la produzione di biocarburanti a 2 milioni di tonnellate all’anno nel 2025, e a 6 milioni nel 2035. Evidentemente, negli ambienti giusti, qualche rassicurazione sul futuro dei carburanti ce l’hanno.

Proprio in queste ore si dice che il governo francese stia pensando a una super alleanza europea tra Stellantis e Renault in chiave anticinese. La vede un’ipotesi realistica?

Non mi stupirei se, quella che al momento resta un’indiscrezione, trovasse conferme. Tavares – nella stessa intervista a Bloomberg che ha alzato il livello della discussione – fa un passaggio circa la necessità dell’industria europea di consolidarsi. C’è chi da tempo vede un disimpegno di Stellantis dall’Italia: la verità è che venendo meno la figura di Sergio Marchionne, John Elkann ha lasciato la guida di FCA/Stellantis a Tavares, essendo lui più un uomo di finanza che di industria. Del resto, quando FCA si è fusa con PSA dando vita a Stellantis, lo ha fatto perché cercava un partner che la proiettasse nell’orizzonte della mobilità elettrica, orizzonte in cui Marchionne non aveva creduto. La trazione francese, dentro Stellantis, è indiscussa e solida sin dall’inizio.

Cosa può fare il governo per sostenere il settore dell’automotive in questa fase così difficile?

Intanto, deve aprire una seria interlocuzione con Stellantis. A oggi, i francesi hanno gestito questa fusione secondo i loro interessi anche perché da Elkann e dall’Italia – a parte qualche manifesta insofferenza dei sindacati – non si è mai battuto ciglio. Pomigliano, che Tavares vede a rischio, è uno degli stabilimenti più moderni al mondo. Non può non esserci un futuro per l’automotive in Italia. Anzi, va presa seriamente l’ipotesi di portare nel nostro Paese un altro grande costruttore. Questo farebbe certamente crescere il settore auto e il suo indotto.