L'anniversario

20 anni fa l’inizio della guerra in Iraq

Doveva essere una guerra lampo per abbattere Saddam Hussein accusato di sostenere il terrorismo e possedere armi di distruzione di massa. Petraeus oggi: Commessi gravi errori ma nessun paragone è possibile con l’invasione dell’Ucraina

A Baghdad erano le 5:34 del 20 marzo 2003 quando i primi bagliori nel cielo annunciarono l’inizio dell’operazione ‘Shock and Awe’, l’invasione dell’Iraq da parte della “Coalizione di volenterosi” guidata dagli Stati Uniti. L’ultimatum di George W. Bush a Saddam Hussein con l'offerta di abbandonare il potere e il Paese era scaduto. Attacchi aerei in vista dell'invasione erano già in corso dal 19. Era l’inizio della Seconda Guerra del Golfo.

Avrebbe dovuto essere una guerra lampo e in un certo senso lo fu: venti giorni dopo, il 7 aprile, i marines entravano nel palazzo del dittatore; il primo maggio, dalla portaerei USS Lincoln Bush annunciava: "Mission accomplished", missione compiuta.

In realtà il conflitto e l'occupazione si sarebbero protratti per anni con un tributo di sangue difficile da calcolare con precisione. Si stima che nei primi anni di conflitto siano morti tra i 151.000 a 1.033.000 iracheni. In totale, la guerra ha causato oltre 100.000 morti tra i civili  oltre a decine di migliaia di morti tra i militari. La maggior parte delle vittime si è verificata tra il 2004 e il 2007, gli anni in cui in Iraq sulle ceneri della guerra sorgeva lo spettro dell'Isis.

Dal 2013 al 2017, dopo la fine dell'occupazione, si sono registrati almeno 155.000 morti e oltre 3,3 milioni di sfollati interni all'interno del Paese. Secondo il ‘think tank’ Iraq Body Count, le vittime civili in due decenni oscillano fra 187.000 e 210.000, con un picco di oltre 26.000 nel solo 2006. Durante la guerra hanno perso la vita anche 45.000 soldati iracheni, 35.000 insorti, 4.600 soldati usa e 3.650 contractor.

Le prime unità speciali della CIA erano già in Iraq a partire dal luglio precedente per preparare il terreno ma la data chiave per l’innesco dell’operazione militare fu il 5 febbraio del 2003 quando il segretario di Stato Colin Powell si presentò al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite agitando una fialetta di polvere bianca (antrace) come prova della capacità irachena di dotarsi di armi di distruzione di massa. Una prova che si sarebbe rivelata falsa.

Ma il dado ormai era tratto nonostante le manifestazioni pacifiste e l’incrinatura del fronte occidentale schierato contro il terrorismo internazionale, Al Qaida e Osama bin Laden, con Francia e Germania contrarie all’intervento a differenza di quanto era accaduto con la guerra in Afghanistan all’indomani dell’11 settembre. Il 20 gennaio 2003, il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin, aveva dichiarato: "L'intervento militare sarebbe la soluzione peggiore".

 

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 Caduto Saddam - il “macellaio di Baghdad” fu catturato in un buco di ragno non lontano da Tikrit e giustiziato tre anni dopo - l’Iraq divenne per gli Stati Uniti e per la coalizione un pantano di instabilità e violenze. Un tributo di sangue pagato anche dall’Italia. Nella missione denominata “Operazione Antica Babilonia” morirono 53 soldati italiani, 19 nella strage di Nassiriya del 12 novembre 2003. 

Le foto di Abu Ghraib che mostravano gli abusi contro i prigionieri nel “carcere delle torture” trasmesse nell'aprile del 2004 dalla CBS vennero rilanciate dai media di tutto il mondo dando un colpo durissimo alla credibilità dei leader occidentali dopo le speranze suscitate dalla liberazione dal dittatore. 

Un lungo “dopo” guerra che si chiuse nel 2011 quando Barack Obama completò il ritiro delle truppe e di cui oggi, in un’intervista rilasciata a Repubblica in occasione dei 20 anni dall’inizio della seconda Guerra del Golfo, David Petraeus ammette i gravi errori ma respinge il paragone con l’invasione russa dell’Ucraina: “Io c’ero, fummo accolti da liberatori”.

Petraeus: Commessi gravi errori ma nessun paragone possibile con l'invasione dell'Ucraina

La coincidenza dell’anniversario con il mandato di arresto internazionale spiccato dalla Corte Penale Internazionale nei confronti di Vladimir Putin per i crimini commessi durante l’invasione e l’occupazione dei territori ucraini e in particolare con la deportazione di bambini ha innescato da parte dei sostenitori del Cremlino il confronto con l’invasione dell’Iraq. Linea dettata con la consueta veemenza dal vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione russa Dmitry Medvedev in un post su Telegram in cui, annunciando, l'inizio di un "cupo tramonto" per l'intero sistema di relazioni internazionali ha fatto riferimento ai crimini statunitensi in Afghanistan e Iraq, rispetto ai quali la CPI “si è rivelata impotente”.

Nell’intervista a Repubblica, Petraeus, che all’epoca era generale al comando della 101ma divisione aviotrasportata, respinge seccamente l’analogia. Alcuni affermano che non c'è differenza tra l'Iraq e l'Ucraina ma “gli iracheni hanno applaudito e festeggiato quando abbiamo rovesciato il regime omicida e cleptocratico di Saddam Hussein", dice Petraeus, "Ero lì e l'ho visto. Siamo stati accolti molto calorosamente dal popolo. Questo non è stato il caso della brutale e ingiustificata invasione dell'Ucraina”.

Semmai, è pronto ad ammettere, errori e gravi sono stati commessi dopo “e sono pronto a riconoscerli, ma la maggior parte degli iracheni voleva rovesciare il brutale regime di Saddam, mentre la maggioranza degli ucraini combatte Putin". Alla domanda se la fine della missione ha aperto la strada all’Isis, Petraeus risponde: "Avrei preferito una presenza duratura delle forze combattenti, come gli addestratori rimasti in Iraq, ma si è rivelato impossibile". E riguardo alle conseguenze dell’odierno conflitto Petraeus afferma che in effetti, nessuno ha fatto di più per la causa del nazionalismo ucraino di Vladimir Putin: “proponendosi di rendere la Russia di nuovo grande, ha effettivamente reso di nuovo grande la Nato".